Fuga in collina per lo tsunami
«C'è una bomba?». I turisti a caccia di taxi
«Out, out, out». Fuori tutti, sento gridare. E all'improvviso un fiume di persone comincia a correre all'impazzata verso le uscite dell'aeroporto, verso di noi che siamo vicini a uno degli ingressi, subito dopo aver passato il metal detector. Non capisco che cosa stia succedendo.
Il facchino che ci accompagna urla di andare via mentre lui recupera le ultime borse dal nastro. Chiamo mio marito Mike, che mi precede, afferro i miei due bambini e cominciamo a correre anche noi oltre la porta. Via, via, via, continuano a gridare poliziotti e altre persone in uniforme. Un turista mi chiede se c'è una bomba. Non lo so. Forse è il terremoto, penso. Mentre venivamo all'aeroporto l'autista del taxi ha ricevuto una telefonata che lo informava, quasi in diretta, che a Patong Beach c'era stato una forte scossa. Noi eravamo in auto e non abbiamo avvertito nulla. Ma io ho scritto un tweet che non è mai partito perché non c'era copertura: «Forte terremoto a Phuket, speriamo che non arrivi uno tsunami. Good luck».
Sono da poco passate le 4 e mezzo. Camminiamo per qualche centinaio di metri, poi il facchino dice che possiamo fermarci. Ci sono altri turisti. Prendo il telefonino e trovo l'sms del Corriere che dà la notizia del terremoto a Sumatra e del pericolo tsunami. Informo subito Mike, ma la voce si è già diffusa. L'aeroporto è sul mare, ecco perché lo hanno evacuato immediatamente. Scappiamo, scappiamo, scappiamo, dico impaurita ripensando alla grossa lapide nera, sulla spiaggia di Kemala Beach, vicino a dove alloggiavamo: il monumento alle vittime dello tsunami del 2004, mi sono fermata a leggere l'epigrafe proprio l'altra sera.
«The other way, the other way», dall'altro lato, ci grida una signora in divisa grigia, che sembra una hostess e ci obbliga a seguirla nella direzione opposta. Così ripassiamo davanti all'aeroporto e ci incamminiamo verso destra. «Mamma, che cosa sta succedendo?», continua a chiedermi mio figlio Alessandro di 4 anni e mezzo, che tengo per il braccio come in una morsa. Con l'altra mano stringo Chiara, che ha quasi 3 anni e non dice nulla.
I taxi davanti all'aeroporto sono spariti. Bisogna camminare, ma il facchino non ci abbandona. La signora in uniforme ci incalza: «Forza, veloci». Cominciamo a correre. Poi all'improvviso vedo un volto noto dall'altro lato della strada. «Richard!», esclamo mentre lui attraversa per venirci incontro. È Richard Dobbs, un amico di mio marito, l'ho conosciuto solo un giorno fa, ma sono felicissima di rivederlo. Anche lui stava andando all'aeroporto, ma è arrivato quando avevano già chiuso la strada di accesso. È sceso per chiedere che cosa stesse succedendo e ci ha visto. Sua moglie e i suoi figli sono rimasti sul taxi, che è abbastanza grande, un furgoncino, come usa da queste parti, per caricare noi quattro e i nostri bagagli. Partiamo tutti insieme verso la collina. Siamo sudati all'ennesima potenza, perché fuori ci sono 31 gradi e un'umidità pazzesca. Sul taxi l'aria è gelida, bisognerebbe abbassare l'aria condizionata, perché così ci verrà la bronchite, ma non oso protestare, non questa volta.
L'autista si ferma sul ciglio di una strada larga e molto trafficata. Di fronte a noi c'è un largo piazzale che ospita un college. È stato scelto come punto di attesa da molti turisti provenienti dall'aeroporto, ma è affollato anche da tantissimi locali, arrivati senza casco con le loro motociclette. Scendo per fare delle foto. Vorrei mandare le immagini alla redazione online, ma la trasmissione dati è bloccata. Funzionano solo la voce e gli sms. L'autista vuole farci scendere, non vuole aspettare qui con noi, dice che deve andare a casa. Ma non può abbandonarci così. Trovare un altro taxi è impossibile e il traffico è come impazzito. E abbiamo una montagna di valigie. No way. Richard lo convince a portarci alla marina di AoPo, dove è ormeggiata la sua barca. Dice che là saremo al sicuro perché è dalla parte opposta rispetto al pericolo tsunami. Anche nel 2004, sul lato est dell'isola non è successo nulla. Ma quando arriviamo la barca non c'è, il capitano, un'australiana di nome Gina, l'ha portata 2 miglia al largo, per precauzione. È più sicuro stare in mare aperto che in banchina.
Ci accampiamo al Caffé del porto, chiuso per tsunami. E aspettiamo. I bambini sono travolti dalla stanchezza. È un incubo, sbotto. È un inconveniente rispetto a uno tsunami, mi corregge mio marito Mike.