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Mano nella mano verso la vita

Ultimo Aggiornamento: 07/03/2012 08:39
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07/03/2012 08:39
 
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«Da bambino dovevo tenere al sicuro il mio fratellino»
Quando ero piccolo, e andavo a scuola insieme a mio fratello, mia madre mi diceva di tenerlo per mano, e questo mi sembrava giusto e anche responsabile. Quello che non capivo è perché mi diceva sempre: «mi raccomando, quando passate per quella strada dove non c'è il marciapiede, mettiti sempre tu dal lato della strada, dove passano le automobili». Io lo facevo, e lo facevo con diligenza, ma ero molto dispiaciuto. Per me significava: «io spero che nessuna auto vi butti sotto, ma se proprio dovesse succedere, preferisco che muoia tu piuttosto che lui».


Francesco Piccolo - «Storie di primogeniti e figli unici» - Einaudi - pp. 128, € 9,50
La cosa mi rendeva abbastanza agitato. Anche perché, ogni volta che le chiedevo un po' più di nutella nel panino, lei diceva che non era giusto, e che eravamo tutti uguali; e a quel punto non ho mai avuto il coraggio di risponderle: «e allora se siamo tutti uguali, la mattina dal lato della strada si mette chi capita, o facciamo una mattina per uno, così le possibilità di essere investiti sono alla pari». Confesso che ho più volte avuto la tentazione di lasciare lui, dal lato della strada; ma mi mettevo una paura del diavolo, perché sono sicuro che se si fosse spiaccicato sotto un'auto, le avrei prese di brutto, perché sarebbe stato evidente che avevo lasciato lui dalla parte più pericolosa, disubbidendo. A dire la verità, avevo già preparato una scusa: avrei detto con voce incredula che era stata colpa di un pazzo che con il motorino aveva tentato di passare rasente il muro e aveva colpito in pieno mio fratello; questa spiegazione non soltanto mi sembrava credibile, ma mi avrebbe pure consentito di fare a mia madre una lezione morale, del tipo «in nessun luogo si può essere al sicuro quando il destino ha scelto, nemmeno dalla parte del muro».
Ora, che lui si spiaccicasse mi importava sì, ma fino a un certo punto, anche perché i miei precoci calcoli economici mi suggerivano che, rimanendo l'offerta di nutella alla stessa quantità e dimezzandosi la domanda con la dipartita di mio fratello, io avrei ricevuto chiari vantaggi, raddoppiando il fatturato. Ma anche le leggi economiche hanno il loro freno morale, e allora, nonostante il fatto che mentre pensavo queste cose con l'anca mi veniva da spingere leggermente mio fratello verso il centro della strada, poi la smettevo subito pensando al tradimento nei confronti di mia madre, alla punizione che avrei ricevuto facendo le dovute proporzioni. E cioè: se la pena per una parola sconcia era di due sberle e due ore chiuso in camera, figuriamoci quella per l'assassinio di mio fratello. E poi non avrei avuto più chi mi passava la palla mentre giocavo giù nel parco.

La verità però è un'altra: quello che mi premeva di più era non tradire mia madre; credevo molto in lei, nonostante preferisse che un parafango colpisse me piuttosto che mio fratello, e andavo a scuola come un eroe alla guerra pronto a sacrificarsi per la patria. Non appena svoltavamo l'angolo e scendevamo dal marciapiede, passavo mio fratello da una mano all'altra e lo tenevo dalla parte del muro, mentre io, con la tristezza nel cuore, mi tenevo dal lato della strada, e ogni volta che passava un'auto o una motocicletta chiudevo gli occhi e aspettavo che il vento mi colpisse in pieno viso, e ogni volta poi tiravo un sospiro di sollievo. Certi giorni mi ponevo addirittura il dilemma se non fosse una disubbidienza anche quella di arrivare sano e salvo a scuola, ma poi mi convincevo facilmente che esageravo, e mia madre aveva fatto solo una lista di preferenze, e non voleva proprio ammazzarmi.


«Bambini. Periferia di Comacchio», di Enrico Pasquali (1955). La solidarietà infantile, rivisitata attraverso la memoria, è al centro di «Storie di primogeniti e figli unici» di Francesco Piccolo
Me ne rendevo conto in maniera chiara quando uscivo con lei e, rifacendo lo stesso percorso, mi teneva al riparo dalla strada con il suo corpo: faceva con me quello che aveva chiesto a me di fare con mio fratello. A quel punto rivalutai la mia posizione, pensando che se si sacrificava lei stessa, potevo farlo benissimo anch'io. Era un circolo: una volta protettore, una volta protetto. Però quello che non riuscivo a sopportare era che alla fine del circolo c'era mio fratello che non moriva mai perché non proteggeva nessuno, e all'inizio c'era, che so, mio nonno che rischiava la vita tutti i momenti, proteggendo tutti, e finivo per credere che camminasse sempre al centro della strada anche quando stava solo, non foss'altro che per il sollievo di sentirsi sollevato dall'incarico qualora un'auto l'avesse sollevato da terra.
Quando poi mio nonno morì per davvero, nel suo letto e non perché gli fosse passata sopra una Ferrari Testarossa, che io poi pensavo si chiamasse così per le conseguenze causate a quelli che investiva - anche se quando seppi del decesso chiesi a mia madre com'era avvenuto, sperando proprio che un'auto incurante delle leggi stradali avesse salito le scale e fosse penetrata fino a dentro la camera da letto colpendo in pieno mio nonno, così avrei potuto dire ancora una volta, col dito indice sollevato a rimprovero: «quale migliore esempio per capire che in nessun luogo si è davvero al sicuro quando il destino ha scelto, nemmeno nel proprio letto», e il destino per me aveva sempre la forma di un'auto impazzita nel centro storico; quando morì mio nonno, la situazione si fece più chiara perché mia nonna, non sua moglie, ma l'altra nonna che avevo, aveva detto il giorno dei funerali «e non era meglio che morivo io?», non per una scala di valori, s'intende, ma perché lei, diceva, aveva dieci anni di più, e sarebbe stato più giusto che fosse morta lei. Ragionamento impeccabile, che faceva luce su tutta la questione della vita, della morte e sul fatto che io dovessi stare dalla parte della strada quando uscivo con mio fratello e dalla parte del muro quando uscivo con mia madre. Pensavo anche che, secondo questa logica, prima che toccasse a me di stare sempre dal lato della strada, come era stato per mio nonno, mancava molto tempo, e allora mi sentivo rasserenato. Mia nonna poi prese a dire ogni volta che moriva qualcuno: «e non era meglio che morivo io?», anche quando il deceduto aveva due mesi meno di lei, tanto che mi costringeva a risponderle: «e vabbe', nonna, per due mesi non fa niente». Ma la logica di mia nonna era ferrea, e il tempo passava e diventando sempre più vecchia, c'erano sempre meno possibilità che morissero persone meno giovani di lei, e ogni giorno, quando sentivamo di un decesso, lei diceva quella frase. Per un periodo, lo faceva anche quando alla televisione dicevano che i terroristi avevano giustiziato il Tale rappresentante eccetera eccetera; lei, incurante dei fattori politici che pure sembravano determinanti, diceva «e non era meglio che morivo io?». Finì che tutti noi pensammo che sarebbe stato veramente meglio che morisse lei, non fosse altro che per non sentire più che sarebbe stato meglio che fosse morta lei. L'avremmo offerta volentieri in cambio di qualche malato più giovane, per farla contenta, ma non ci sarebbe stato nulla da fare. Pare che la legge dell'educazione e della precedenza ai più anziani fosse prerogativa della mia famiglia, ma fuori, nel mondo, non ne tenessero molto conto.
Sono bellissimo...
Administrafan
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