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De Roberto, Bellini e l'identità etnea

Ultimo Aggiornamento: 07/03/2012 08:39
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Ritratto letterario della città di Catania
È incredibile come, ripercorrendo le pagine de I Viceré (1894) di Federico De Roberto (1861-1927) - scrittore straordinario, a lungo sottovalutato, figlio di un ufficiale napoletano e di una nobile catanese - si possa rintracciare la «topografia romanzesca» di Catania.

Soprattutto per quanto riguarda il convento dei Benedettini («grassi monaci che volevano assicurarsi a tutti i costi un paradiso almeno in questo mondo»: i più gaudenti tenevano, proprio in alcune abitazioni al di là della piazza, le loro mantenute), nei corridoi del quale sono ambientate molte pagine del romanzo e che, dal 1931, accoglie due biblioteche cittadine e la Facoltà di Lettere, presieduta da Enrico Iachello. I personaggi? Inventati, ma veri. Inventati, ma riconoscibili. Insomma, le solite contraddizioni dell'isola.


Un manifesto per il centenario della nascita di Vincenzo Bellini
Ecco gli Uzeda di Francalanza - donna Teresa Risà, don Giacomo, don Raimondo, Angiolina, donna Chiara, padre Lodovico, donna Lucrezia, don Gaspare, padre Blasco, donna Ferdinanda, Consalvo, Teresina -, ed ecco Giovannino Radalì, Benedetto Giulente, Matilde Palmi, Baldassarre Crimi, personaggi che si muovono in un contesto che Benedetto Croce trovava «pesante, che non illumina l'intelletto come non fa mai battere il cuore».
Nobili d'antico lignaggio, nobili recenti, ricchi nobilitati sfilano, con i loro rituali, nella città «del lusso e dell'amore», come in parata, nelle tre vie principali (Garibaldi, Etnea e Vittorio Emanuele) o nelle ville pubbliche. Come ricordano Francesco Mannino e Paolo Militello, le donne hanno acconciature con chignon e cappellini con velette e piume; gli uomini col paletot (qualcuno col collo di pelliccia), bastone da passeggio, gilet, camicie coi colletti che costringono le teste a stare su, pantaloni tirati e, magari, con il parasole tanto amato dal poeta Mario Rapisardi, che Nino Martoglio affettuosamente canzona, chiamandolo «l'uomo dall'ombrello perpetuo».

E De Roberto? «Per le strade andava vestito con molta eleganza, la caramella nell'occhio destro, pensieroso, assente, con la testa sempre alla massima altezza, quasi scivolasse sopra un lago tranquillo, essendogli impossibile, a causa di una malattia, staccare i piedi dal suolo», ricordava Vitaliano Brancati.

Ecco, la città etnea della seconda metà dell'800 era anche questo. Ed è proprio da qui che prende l'avvio Catania, volume di ben 400 pagine (Domenico Sanfilippo editore, 118), curato da Giuseppe Giarrizzo che, in quarantadue capitoli, ne scandaglia la storia, l'identità urbana dall'antichità al '700, la «nobiltà virtuosa» e la «borghesia operosa», sino alla città moderna e a quella contemporanea.

Ci sono storia e politica, architettura e arte, letteratura ed editoria, giurisprudenza e religione. Ma su tutto dominano Verga e Capuana, De Roberto e Brancati. E, non ultimo, Vincenzo Bellini («Casta diva che inargenti / queste sacre antiche piante, / a noi volgi il bel sembiante / senza nube e senza vel», Norma, atto I).

Certo le glorie della città non sono rappresentate dai quattro scrittori e dal musicista, ma dai personaggi da loro creati che si avvicendano su un immaginario palcoscenico, nei quali il lettore o lo spettatore trova e rivive certi eroismi riferiti a se stesso e taluni difetti attribuiti, naturalmente, ad altri. Vuoi per le implicazioni di carattere psicologico e le dissertazioni filosofiche, in cui i siciliani sono particolarmente versati; vuoi per quel senso di avventura mai disgiunta dal rischio che è il sale della vita in generale, ma che, per un catanese, diventa conditio sine qua non si possa dire, con Pablo Neruda, «confesso che ho vissuto». Il tutto, naturalmente, con sottofondo musicale belliniano.
Sono bellissimo...
Administrafan
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