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«Dovevo sparare all'auto non me lo perdonerò»

Ultimo Aggiornamento: 14/01/2012 08:24
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14/01/2012 08:24
 
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Parla il collega del vigile ucciso


«L'ho visto scomparire sotto la macchina. Se ho imparato
a fare bene il mio lavoro lo devo a lui»

MILANO - Quella maledetta mano. Per tutta la mattina e per metà pomeriggio, in Comando, la tiene impegnata come volesse lasciarla lontana. Firma verbali, firma carte che nemmeno inizia a leggere, sposta dalla scrivania polvere che non c'è, raccoglie la cartaccia fuori dai cestini, accende e spegne il cellulare, accende e spegne, poi gli dicono vai, Gabriele, noi qui avremmo pure finito, forza, torna a casa. A casa, senza farsi vedere dalla sua piccolina, svita il tappo d'un flaconcino di sedativo, si mette a letto, e non ce la fa, torna il tormento fuori tempo massimo. «Avrei dovuto svuotargli il caricatore addosso, alla macchina. E invece ho cercato di aggrapparmi alla bicicletta. Non me lo perdonerò mai».

IL TESTIMONE - Gabriele Specchier, 33 anni, veneto grande grosso, giovedì era là. Insieme a Nicolò Savarino, 42 anni, siciliano piccolino. Stavano insieme come sempre da mesi. Viaggiavano in coppia, vigili di quartiere alla Bovisa, e complimenti a chi li ha uniti, sul lavoro a volte è la stessa storia dell'amore, se trovi l'anima gemella scali il mondo. Non li fermava nessuno, Nicolò e Gabriele. Si guardavano le spalle, in strada dai pericoli e nei corridoi dalle invidie, e andando in bicicletta si tiravano le volate a vicenda, uno si metteva in scia dell'altro, al riparo, e viceversa. Gabriele Specchier ha visto Nicolò sul cofano della macchina, l'ha visto venir risucchiato da sotto tirato per le gambe, l'ha visto scomparire, e ha visto questa bicicletta, attaccata a Nicolò, la sua bicicletta, spuntare e rimanere sospesa. Non ci ha pensato, dice e ripete ai colleghi, a impugnare la pistola, sparare, fermare la follia, salvare il collega. No, Gabriele si è allungato, con la mano ha cercato d'afferrare un pezzo di bicicletta, il manubrio, o una ruota, o un pedale, non ricorda, non ricorda tanti particolari, è sotto choc, stordito, tramortito; quasi s'è tuffato, e non ce l'ha fatta. E intanto la macchina andava, correva, scompariva, e Nicolò non si vedeva. «Scrutavo a destra, a sinistra, Dio mio, Nicolò, dove sei? Non usciva, non usciva più».

LA FOTOGRAFIA - Si son proprio trovati, Gabriele e Nicolò. Guardateli nella fotografia di gruppo fra colleghi. Pranzo in campagna. Non sono in prima fila, non se ne restano seduti. Macché. Sono in fondo, in piedi, a chiudere il gruppo. Un saluto con il bicchiere, un sorriso, cin-cin.

LA BOVISA - C'erano le fabbriche, alla Bovisa, periferia nord di Milano, c'erano fabbriche e operai. Anche trentamila, certi anni. L'anziano barbiere Cosimo se li ricorda, gli affari andavano a mille, che bei tempi, i bar aprivano alle cinque, e cinque minuti dopo una distesa di bicchierini di grappa riempiva già il bancone, passavano di fretta gli operai infreddoliti scesi alla stazione, qualche minuto alla sirena d'inizio turno, scaldiamoci un attimo dopodiché corriamo . C'è ancora un vecchio circolo di operai, posto romantico, con un biliardo, le luci basse azzurrine per il fumo delle sigarette, le partite di scopone, e ai tavoli litigate per qualcuno che bara, e lamentele contro le mogli che rompono al telefonino, passa a comprare il pane mi raccomando . Ogni tanto Nicolò metteva la testa dentro, e domandava: «Tutto bene ragazzi?». Dice un vecchietto: «Guardi, era così cortese che avevo preso l'abitudine di chiedergli chiarimenti sulle bollette che non capivo».

I VIGILI - Nel piazzale della stazione, l'altra notte, erano le quattro e ancora pattuglie di vigili giravano in tondo, a marcia bassa, casomai il killer si fosse acquattato dietro qualche macchina parcheggiata, e aspettasse il buio per sgattaiolare. C'è una targa, nel parcheggio, è dedicata a Mary D'Amelio, una ragazza di diciassette anni che qui vicino, nel novembre del 1987, fu violentata e massacrata. Purtroppo c'è un sacco di spazio, per una nuova targa, sempre che ne dedichino una a Nicolò Savarino. Anche alla Bovisa si trascinano i sibili di rabbia e di sdegno e anzi di schifo già ascoltati all'obitorio, dove la mamma e il papà di Nicolò sono saliti ieri, dalla Sicilia, il papà è entrato e ha avuto subito un malore. Andavano dunque dicendo là i vigili, e altri vigili lo ripetono sulla scena del delitto, quanti pochi fiori, quanta poca emozione, quanto poco dolore è uscito dai milanesi per la morte in servizio di un vigile. E chissà se faranno caso, i milanesi, alle biciclette dei ghisa che stanno girando con un nastrino addosso, color nero del lutto, che il vento gli dia fiato. Nicolò Savarino chiamava Gabriele «Lellino», era uno abituato così, lui, inglobare tutto e tutti nel suo piccolo mondo, per proteggerli meglio.
Sono bellissimo...
Administrafan
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