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Dalle Berbesine al Grignolino

Ultimo Aggiornamento: 12/01/2012 09:21
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Le prime fasi dell'avventura del Grignolino risalgono a tanto tempo fa, all'Anno di Grazia 740, quando era re il longobardo Liutprando.
In quell'epoca i boschi coprivano fittamente le colline del Piemonte e ampie aree di terreno si stendevano incolte e disabitate.
Liutprando fu un re che in Monferrato lasciò ricordi di guerra e di pace. Fra i suoi atti munifici, affidò la cura della Chiesa di S. Evasio di Casale ad un gruppo di Canonici agostiniani provenienti dall'Abbazia di Vezzolano. I Canonici di S. Evasio dissodarono i terreni incolti e disboscarono le colline, guadagnando terreno alle coltivazioni e soprattutto alla vite. Gradualmente le proprietà della Chiesa di S. Evasio aumentarono per lasciti e donazioni ed i Canonici divennero rinomati per la competenza con cui gestivano le loro terre.
Proprio nei loro minuziosi documenti e nelle pergamene di Santo Stefano di Vercelli, si trova trascritto per la prima volta il nome delle viti Berbesine. Sono queste le uniche viti nominate specificamente in quegli antichi atti, le uniche che si raccomanda di coltivare. Nel 1246 i Canonici davano in affitto quattro staia di terra gerbida affinchè fossero lavorate e vi fossero collocate buone piante di viti Berbesine. Pochi anni dopo concedevano la stessa superficie di terreno, sempre a patto che il terreno fosse piantato "de bonis vitibus berbexinis". Non esigevano alcun canone per i primi cinque anni, ma dopo quel periodo avrebbero richiesto due staia e una mina di vino. Doveva essere del migliore, quello della prima spremitura e soprattutto doveva essere rigorosamente prodotto dalle uve Berbesine di quella precisa vigna. Non in qualunque terra i Canonici incoraggiavano l'impianto di Berbesine. Avevano in mente zone ben determinate: Luagnano, Leventino, Val Valisenda. In quegli anni lontani, il prevosto di S. Evasio, Ottobono di Coniolo, non esitava a fare contratti di permuta per aggiudicarsi i terreni più adatti alle pregiate Berbesine.
Ma che rapporto intercorre fra queste antiche uve e il nostro Grignolino? Per individuarlo bisogna attendere l'inizio del 1800. Fu allora che fra le terre di coltivazione delle Berbesine passò il conte Gallesio ben noto fra gli esperti di Pomologia. Egli cominciò l'osservazione del Berbesino alla Fraschetta, nell'Alessandrino. Ne annotò attentamente le caratteristiche per ritrovarle poi identiche in un'uva nella zona di Quattordio che aveva un nome leggermente diverso: il Barbesino.
Gallesio aveva già visto un'uva molto simile anche in un'altra area e precisamente nell'Astigiano. Qui però era conosciuta sotto un altro nome ancora, quello di Grignolino. Forse fu il numero elevato di vinaccioli, che in dialetto si chiamano "grignole", a fare attribuire questo nome all'uva. Il conte ligure arrivò a concludere che il Barbesino e il Grignolino erano il medesimo vitigno.
Gallesio ne esaminò i grappoli sulle colline di Portacomaro d'Asti ed assaggiò il vino che se ne traeva: "un vino nero-chiaro sciolto e di forza mediocre che non dà alla testa ed è diuretico". Riscontrò che era un vino scelto, di prezzo elevato: "E' in effetti il vino da tavola di tutte le persone agiate".

Nelle cantine di una celebre fortezza
La storia del Grignolino passa anche per la celebre fortezza di Casale, una delle più importanti e contese piazzeforti d'Europa, simbolo della potenza dei Gonzaga.
E' una poderosa costruzione a pianta stellare, esagonale, con mura possenti, protette dai fossati alimentati dal Po. Al suo interno si trovavano le caserme, la santabarbara, i magazzini di deposito, un ospedale, una cappella ed anche ampie cantine. Tutte le comunità del Monferrato ogni anno facevano affluire alle cantine della cittadella varie quantità di vino con cui pagavano una parte delle tasse imposte dai duchi.
Il 17 maggio 1614 il nuovo "canevaro", Alessandro Gatto, prese in consegna le cantine della cittadella e del castello ducale. Durante il suo giro di ricognizione compilò un elenco dettagliato di tutto quanto si trovava nelle cantine: stadere per il peso delle uve, canali d'albera per per far scorrere le uve nel torchio, scalette da cantina, pillie per invassellare il vino, vasselle, botti, arbii, tine cerchiate in ferro, torchi, ceberi e cebrini. Non solo vennero annotati strumenti e recipienti, ma anche i vini conservati nel castello, distinti per colore. Furono registrate puntigliosamente le quantità di vino claretto, di vino bianco, di vino nero. Per due vini tuttavia si mostrò una attenzione particolare e si riportarono con il loro nome specifico: Grignolino brente sei, Cortese brente sei.
E' significativo il fatto che questi vini non siano stati assimilati agli altri, ma che siano stati gratificati con una specifica definizione, con lo stesso nome delle varietà di uva da cui erano prodotti.



Storie di celebri ampelografi e di "vilet"

Sull'onda dei nuovi interessi per la viticoltura, nel 1872 il Ministro dell'Agricoltura, on. Castagnola, sostenne l'istituzione di un Comitato Centrale Ampelografico. Numerose commissioni divise per provincie furono incaricate di lavorare per compilare una "Ampelografia Italiana". Una delle prime attività rivolte a questo scopo fu l'organizzazione ad Alessandria di una grande Esposizione di uve e di vini. Gli espositori dovevano indicare il vitigno, il territorio, l'annata del vino, il metodo di vinificazione. L'iniziativa destò un notevole interesse. Vennero inviati 900 campioni di uve e 437 vini. La maggior parte dei vini provenivano da uve rosse di una sola qualità (194), seguiti da quelli prodotti con uve rosse miste (136). Gli altri erano bianchi in purezza (44) o misti (24), in più c'erano 34 vini da uve "esotiche" coltivate localmente.
Tra i vini principali si contavano 28 campioni di Grignolino in purezza e undici di Grignolino vinificato insieme ad altre uve.
Le approfondite ricerche vitivinicole condotte produssero considerevoli risultati che vennero raccolti nel libro "Ampelografia della Provincia di Alessandria" dell'agronomo prof. Carlo Leardi e del prof. PierPaolo Demaria. Studiando sarmenti, gemme, fiori, foglie, frutto, i due esperti agronomi nel 1875 riconobbero per vero ciò che aveva già affermato il conte Gallesio nel 1834. Affermarono infatti che il Grignolino era il vitigno detto anche "Barbesino, Verbesino, Balestrà, Arlandino, Girodino, Rossetto". Lo segnalarono come vitigno indigeno dei colli astigiani e casalesi e scrissero che in ambedue i circondari era cospicuamente coltivato e considerato come uno dei migliori vitigni per vini da pasto. Rilevarono che non sempre era vinificato in purezza, ma che era soggetto alla diffusa abitudine di mescolare alcune varietà di uve per la vinificazione. In particolare guadagnava in morbidezza in seguito all'aggiunta di Bonarda, Barbera, Nebbiolo o Fresia.
Anche per il conte Giuseppe di Rovasenda, uno dei più famosi e preparati ampelografi a livello europeo, membro della Commissione Internazionale di Ampelografia, il Berbesino e il Grignolino hanno la medesima identità. Le varianti riscontrabili talvolta nelle dimensioni dell'acino, non sono segno di proprietà dei vitigni, ma dipendono piuttosto della situazione di coltivazione. Secondo Rovasenda, il Grignolino è un'uva finissima, molto esigente tuttavia dal punto di vista del terreno. Sulle colline dell'Astigiano egli nota l'importante presenza di quello che definisce "Grignolino fino nero", un vitigno particolarmente adatto alla coltivazione nei terreni calcarei.
La specificità del terreno era un fattore ben noto e ricercato da chi coltivava il Grignolino. Per questo i viticoltori, per scegliere le zone di impianto, andavano alla ricerca empirica di un segno sicuro: la presenza di vilet, le conchiglie fossili presenti su alcune colline del Piemonte centrale. Questi fossili indicavano una particolare qualità di terreno, sciolto, sabbioso. Per il Grignolino si cercavano anche le esposizioni migliori e si metteva in posizioni privilegiate, di preferenza nelle zone più soleggiate, in punta ai colli



Le tradizionali terre del Grignolino

Nel maggio 1891 il supplemento mensile illustrato del Secolo di Milano venne dedicato alla città di Asti, all'arte, alla storia e all'economia del suo territorio. "La principale e più cospicua ricchezza del circondario" fu individuata essenzialmente nella coltivazione della vite, che forniva "i più reputati e migliori vini del Piemonte e i più squisiti del regno".
Si sottolineava che proprio in ragione della meritata fama di "patria del vino", Asti era stata scelta come sede di una grande Esposizione e Fiera dei vini nazionali.
Proprio in occasione di quella Esposizione, il re Umberto I di Savoia assaggiò diversi vini, ma si complimentò particolarmente proprio per la bontà del Grignolino.
Dal supplemento del Secolo di Milano del 1891 è possibile ricavare molte altre informazioni: riguardano la qualità dei vini astigiani, il loro mercato, i principali vitigni del territorio. Si notava che la qualità e la rinomanza erano tanto alte che molti vini del Piemonte erano venduti sotto il nome di "vini dell'astigiana". I principali sbocchi del vino del circondario di Asti erano la Lombardia, l'alto Piemonte, la Germania e l'America meridionale. Le varietà di vitigni segnalate come le più diffuse erano Barbera, Grignolino, Freisa, Nebiolo, Moscato, Brachetto, Dolcetto. Per la tipica produzione del Grignolino astigiano il supplemento del Corriere indica alcuni paesi di spicco: Portacomaro, Scurzolengo, Agliano, Montegrosso, Montaldo, Mongardino, Rocca d'Arazzo. Ma il Grignolino non era solo pertinenza dell'Astigiano.
All' Esposizione Enologica di Asti parteciparono anche i paesi del Circondario di Casale rinomati per la produzione di Grignolino: Alfiano Natta, Cantavenna, Castagnole Monferrato, Castelletto Merli, Cerrina, Grana, Mombello, Montemagno, Ottiglio, Ponzano, Rosignano, Sala, S.Maria di Penango, Terruggia.
Secondo uno dei grandi protagonisti del progresso enologico piemontese, il celebre enologo Arnaldo Strucchi, il Grignolino era il vero vino superiore da pasto, tipico piemontese, il migliore: di moderata alcolicità, leggero, sapido, di un bel colore rosso granata chiaro.
Strucchi segnalava l'Astigiano come sede principale del vitigno, particolarmente i comuni di Castiglione, Portacomaro, Migliandolo, Castell'Alfero, Montemarzo, Revigliasco, Antignano, Vaglierano, Azzano, Vigliano, Mongardino, e inoltre le colline di Castello d'Annone e della Serra di Quattordio. Strucchi diceva anche della coltivazione sui colli casalesi, dove pure, a suo avviso, se ne produceva un vino pregevole, leggero, abboccato, ma di minore ricchezza alcolica rispetto all'Astigiano.
All'inizio del nostro secolo il Grignolino, unito a Barbera e Freisa entrava nella composizione di un tipico vino da pasto conosciuto come "Monferrato": "un bel vino rosso rubino, di bella schiuma, di ottima vinosità e di garbato profumo, di sapore fresco e molto vivace per la ricchezza di acidità, con fondo di austerità piacevole". Così lo definì all'epoca il dottor Zavattaro, direttore della Sezione di Viticoltura ed Enologia di Casale. Attualmente a San Giorgio Monferrato, sono stati ripresi gli stessi principi per la vinificazione del "Barbesino", ottenuto appunto da uve provenienti da vigneti doc di Grignolino, Barbera, Freisa.



Scelto, raffinato, ma sempre più raro.

L'inizio del 1900 segna un momento molto felice nella storia del Grignolino: è considerato fra i principali vitigni piemontesi. I suoi prezzi salgono fino ad ottenere le stesse quotazioni del Barolo e del Barbaresco.
L'autorevole professore Girolamo Molon, docente di Viticoltura alla Regia Scuola Superiore di Agricoltura di Milano, scrive che è un'uva preziosa e che il vino che dà, è fra i migliori del Piemonte: "scelto, leggero, frizzante, di color granata chiaro."
Negli stessi anni del primo Novecento Pompeo Trentin elogiava questo vino "apprezzatissimo, leggero, dal colore rubino chiaro, profumo piacevolissimo del tutto particolare, e gusto sapido, netto, spesso di un amarognolo assai gradevole." Nel medesimo tempo tuttavia aggiungeva che si trattava di un vitigno delicato, la cui produzione si andava limitando e mescolando con quella del vitigno Barbera per ottenerne un vino più robusto e più serbevole.
Proprio questa delicatezza fu una delle cause principali della forte diminuzione della superficie coltivata a Grignolino. "Non ha la stessa resa quantitativa della Barbera", "E' soggetto alle malattie", "Richiede molte cure nella vigna e in cantina", "Se le annate non sono buone il prodotto ottenuto è irrecuperabile ed inutilizzabile", "E' un vino difficile da capire". Sono frasi che anche oggi pronunciano ripetutamente molti vignaioli dell'Astigiano e dell'Alessandrino, giustificando così la riduzione delle superfici dedicate a questo vitigno.
Già negli anni 1930, l'emerito professore Giovanni Dalmasso, una delle più autorevoli voci della scienza vitivinicola piemontese, lamentava il fatto che andasse diminuendo la produzione "di questo bel vino fino da pasto" ed il suo rammarico era tanto maggiore in considerazione del grande merito di quest'uva, che riteneva "uno dei vitigni più preziosi della nostra regione".



Nuovi fasti per il Grignolino

La lunga storia, l'importanza per il patrimonio vitivinicolo piemontese, lo stretto legame con il territorio astigiano e alessandrino, portano il Grignolino ad ottenere la Denominazione d'Origine Controllata. Il riconoscimento ufficiale incoraggia i viticoltori ad incrementare nuovamente la coltivazione di questo vitigno più difficile, più delicato, più "da signori" rispetto ad altre varietà più resistenti e con maggiori rese.
Il disciplinare della DOC riunisce i tradizionali paesi produttori di Grignolino che si incontrano sparsi in documenti diversi nell'antica e nella più recente storia di questo vitigno e dell'omonimo vino.
L'Astigiano e il Casalese sono le due zone geografiche riconosciute come terre del Grignolino. Queste aree sono contigue e fanno entrambe parte del Monferrato. Ognuna di esse è legata ad una specifica denominazione d'origine: "Grignolino d'Asti" e "Grignolino del Monferrato Casalese". Nelle due denominazioni, ottenute rispettivamente nel 1973 e nel 1974, il Grignolino è vinificato in purezza oppure con al massimo un 10% di Freisa. Nel 1997 sono stati prodotti quindicimila ettolitri di Grignolino d'Asti e novemila ettolitri di Grignolino del Monferrato Casalese.
Nell'Astigiano i comuni indicati dal disciplinare sono trentacinque, mentre per il Casalese i comuni riconosciuti dalla DOC sono trentaquattro.
Recentemente è stata riconosciuta anche la più vasta denominazione Piemonte DOC Grignolino. In questo caso il vino prevede un 85% di Grignolino e un 15% di uve autorizzate.
Terreni, esposizioni, metodi di coltivazione della vite, cure di vinificazione danno al Grignolino una personalità molto particolare.
Se nel 1800 era un vino molto gradito dalla nobiltà e dalla buona borghesia piemontese, oggi la nuova passione per la qualità, per la raffinatezza, per la specificità, per la differenziazione, lo fanno nuovamente oggetto di ricerca da parte dei cultori dell'enogastronomia.
In ambito scientifico il vitigno e il suo vino sono studiati dalla Facoltà di Agraria di Torino, dal Centro Miglioramento Genetico della Vite, dai centri sperimentali della Regione Piemonte e dagli Istituti di Ricerca piemontesi. E' in atto un lavoro di selezione genetica e sanitaria per arrivare ad ottenere dei cloni ottimali da proporre per la coltivazione.
Per quanto riguarda la promozione e l'immagine, recentemente è stato avviato il progetto "I Fasti del Grignolino", ideato dal gruppo Vino e Comunicazione dell'OICCE con l'alto patrocinio dell'Accademia di Agricoltura di Torino. E' un progetto integrato che prevede di riunire storici, ricercatori, vignaioli, vinificatori e operatori della ristorazione in un obbiettivo comune: restituire al Grignolino la fama che aveva nel 1800, quando era definito "spiritoso e leggero, il vino più gentile di tutti".
Sono bellissimo...
Administrafan
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